lunedì 22 ottobre 2007

Pd, attenti ai cattivi consigli

Intervento di Alfredo Reichlin, da "L'Unità"


22 ottobre 2007

Credo che Veltroni sia ben consapevole delle responsabilità enormi che il voto di domenica ha messo sulle sue spalle. E penso che anch’egli consideri essenziale capire quale carico di aspettative si è espresso in quel fiume di popolo in fila per votare il nuovo partito. La mia impressione è che siamo immersi in un processo molto profondo di cambiamenti che non riguarda solo l’Italia. La portata e la complessità di questi cambiamenti non sono ancora chiare.

Gli italiani vogliono un grande cambiamento. È così. Ma quale? Solo pochi mesi fa, al Nord, noi abbiamo preso le botte che sappiamo (si parlò addirittura di «espianto» della sinistra dalle province padane) perché una parte grande del nostro elettorato per protesta contro il suo stesso partito non andò a votare.

Anche questo era un segno che si voleva un cambiamento radicale. La differenza con questa campagna elettorale - almeno come io l’ho vissuta girando per i piccoli paesi del Salento - non era l’attenuarsi di una critica feroce ai vecchi partiti e alla vecchia politica. Da un lato era l’oscura coscienza di un pericolo imminente per la repubblica democratica, la sensazione di una ultima spiaggia, ma dall’altro emergeva come grande novità la forza del messaggio veltroniano che diceva basta con queste divisioni e questa rissa continua per cui non si decide niente; l’Italia - se vogliamo dare una speranza ai nostri figli - deve unirsi in nome di un disegno nazionale che consenta a veneti e siciliani di “stare insieme”.

Insomma, una domanda di futuro resa palpabile e credibile per il fatto che questo nuovo partito nasceva dal basso, dal popolo, direttamente dal loro voto.

C’è, dunque in questo fatto così sorprendente qualcosa che non può essere banalizzato né strumentalizzato da nuove forme di leaderismo. C’è in esso una questione essenziale che io credo riguardi il grande vuoto di questi anni. Lasciamo stare le parole (vecchio, nuovo) e veniamo alla sostanza. Sono anni che questo paese non ha uno specchio vero in cui riconoscersi. Da anni non sa bene chi è perché non si ritrova nella narrazione che gli viene propinata da coloro che formano il “senso comune”: i giornali, la Tv, i potentati. Sappiamo tutto sul “tesoretto”, litighiamo all’infinito su un anno in più o in meno di età pensionabile ma nessuno parla - per esempio - dell’abisso che si sta scavando tra il Nord e il Mezzogiorno. Ci rendiamo conto? Sono passati 150 anni da Porta Pia. Se dopo 150 anni il Paese non si è unificato per cui il 40 per cento di esso consuma molto più di quello che produce, se la classe dirigente di ciò non parla quasi più, vuoi perché ritiene questo problema insolubile oppure perché non si rende conto che questo spiega quasi tutti i nostri guai: lo svuotamento delle leggi uguali e delle pari opportunità, gli intrecci corporativi, la perenne instabilità dello Stato democratico e la debolezza del tessuto etico e nazionale, la conseguenza è inevitabile.

C’è poco da fare. Non c’è più lo Stato nazione, né una economia protetta? C’è la sfida della mondializzazione? In qualche modo ad essa bisogna rispondere. Il Nord risponderà, anzi già sta rispondendo, con una scissione silenziosa; il Sud per proteggersi si attaccherà alle mammelle dello Stato (tramite mafie e clientele).

Questa allora è la grande occasione del partito democratico: poter ridefinire l’agenda del Paese. Andare alla battaglia elettorale (che prima o poi ci sarà) con un partito “nazionale” il quale sappia quale Italia sta nascendo dal mutamento del mondo. Dico quale Italia, non come economia e società soltanto, ma come realtà geopolitica, quindi come entità statale capace di tenere insieme una nazione e di garantire un suo ruolo nel mondo nuovo. Perché questo è il nuovo appuntamento che la storia ci sta dando. E se ad esso veniamo meno (come stiamo venendo meno) l’Italia non conterà più niente. Le analisi vanno fatte a questo livello, che è quello della relazione con l’Europa e il mondo. Altrimenti, se prenscindiamo dal ruolo che la penisola ebbe nella “guerra fredda”, non si capisce perché mezzo secolo fa l’Italia contadina si industrializzò e diventò uno dei sette grandi. Ma oggi noi chi siamo? In che rapporto stiamo col mondo nuovo? E quindi: come possiamo governare senza mettere in campo una nuova idea nazionale?

Se ciò che sto scrivendo è plausibile, Veltroni si trova davvero a un difficile appuntamento con la politica-storia. Io penso che lo sappia e si comporterà di conseguenza. Ma stia attento ai cattivi consiglieri, quelli che sanno solo interpretare il pensiero del “salotto buono” milanese al cui vertice - peraltro - non c’è più Enrico Cuccia ma Geronzi . Il che la dice lunga. Ma non voglio fare polemiche inopportune. Dico solo di non confondere il riformismo che ci vorrebbe oggi con la pochezza di quello che chiamo il riformismo di ieri. Quel riformismo che aveva buon gioco nell’esaltare le virtù del mercato a fronte dello statalismo di una sinistra che non c’è più da un pezzo. Io non discuto la qualità delle persone. Dico solo di fare molta attenzione al fatto che è in atto un radicale mutamento di scenario. Pensiamo solo all’entrata sulla scena di un inedito e impressionante “capitalismo finanziario di Stato”. Basti pensare ai cosidetti “fondi sovrani” per mezzo dei quali la Cina, la Russia, gli emirati arabi muovono migliaia di miliardi di dollari all’assalto delle imprese europee e americane. Che fine fanno i famosi mercati? Si faccia dire Veltroni quali difese sta preparando la signora Merkel. La guerra economica è sempre più tra Stati, finanza e politica si confondono. Altro che lo “statalismo” della sinistra e il riformismo di ieri.

La verità è che non è possibile sfidare la egemonia della destra con i partiti personali, e in mancanza di una forza capace di tenere viva la tensione verso un modo più giusto. E dico più giusto, non solo per il modo come è distribuita la ricchezza (anche), ma in quanto persone, razze e fedi diverse possano convivere. Il problema è la libertà. E che cosa è la libertà oggi se non la padronanza della propria vita e, quindi, l’autonomia della società in quanto formata da uomini liberi? E liberi nel senso che le relazioni tra loro non siano condizionate solo dallo scambio economico ma sia invece l’espressione della creatività della persona. Insomma, economie di mercato sì, ma società di mercato no. È questo il cuore dello scontro.
Una nuova configurazione delle forze di sinistra come lo strumento della libertà degli italiani moderni: questa è la speranza. Una forza post-ideologica che abbandona la chiacchiera di questi anni intorno a un riformismo che non ha riformato niente. E che comincia invece a misurarsi con la forza sconvolgente di quello che è il vero attore della storia moderna: il nuovo capitalismo mondializzato.

Guardandolo per quello che è, senza stupide demonizzazioni. Una forza travolgente che ha anche trascinato nel mondo dello sviluppo e della modernità una parte notevole del Terzo Mondo, ma ha prodotto violenze e ingiustizie inaudite. Ma sopra tutto una forza dirompente che avendo rotto via via ogni contenitore politico e statale (prima l’Olanda e poi l’impero inglese, adesso anche il potere americano) sta, di fatto, surdeterminando il destino del mondo. Con rischi enormi. Ed è ridicolo che questo tema, che non sta affatto dentro le idee di una vecchia sinistra, continui ad essere ignorato da troppi economisti. Gli stessi che fino a uno o due anni fa ignoravano il problema ambientale. D’altra parte, come è possibile continuare a pensare il riformismo italiano a prescindere dalla vicenda mondiale dominata com’è da questo protagonista assoluto della storia moderna che è il kombinat scienza-finanza-multinazioni e controllo dei media? Anche una Italia diversa (anche una unificazione tra Nord e Sud) non è pensabile a prescindere da questo condizionamento.

Il partito democratico quindi, come parte attiva di un nuovo umanesimo. E che basa questo nuovo umanesimo anche sulla difesa e la valorizzazione del lavoro. Il lavoro moderno, intelligente, creativo ma reso sempre più precario e soprattutto avvilito a semplice fattore della produzione. No. Il lavoro è molto di più e di diverso di un fattore della produzione. È il mezzo attraverso cui gli uomini e le donne producono la coscienza di se stessi e creano e arricchiscono le relazioni sociali, il modo di essere della società.

Il problema che io pongo, quindi, non è piccolo. E dovrebbe spingersi alla elaborazione di un pensiero più moderno e complessivo, sul “con chi e contro chi” si colloca il partito democratico.

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