venerdì 16 novembre 2007

Il futuro e il passato


Intervento di Alfredo Reichlin, da "L'Unità"
16 novembre 2007

E' un momento di grandi speranze ma anche di domande difficili. Intanto, possiamo dire che sul punto politico di fondo avevamo ragione. La nascita del Partito democratico ha avviato una svolta. Anche gli amici che dissentono e prevedono catastrofi non possono non riflettere sul fatto che un paese allo sbando e giunto al rischio di una soluzione autoritaria ha ritrovato, spero, una guida, certo una speranza e una prospettiva. Si sono create le condizioni perché le forze democratiche possano riprendere l'iniziativa ed è la destra adesso che è costretta a misurarsi con un forte disegno politico.
Non ripeterò tutte le cose dette a Torino da Veltroni. In sostanza, uscire da un bipolarismo impotente e rissoso formato da due ammucchiate di partiti e di piccole consorterie e, quindi, una democrazia in agonia perchè incapace di prendere le grandi decisioni. Risultato: uno spazio enorme alla sfiducia e il paese consegnato a mafie, poteri di fatto, corporazioni. Ma per fermare questa deriva mettere in campo una forza nuova, un partito nazionale che chiede il consenso per governare. Dico governare, non gestire il sottogoverno, cioè riformare la politica e la cosa pubblica al tempo stesso, ma soprattutto proporre agli italiani un nuovo patto di cittadinanza per rimettere in moto le energie profonde del paese lasciando allo Stato essenzialmente il compito di ridefinire le regole per cui i ricchi e i poveri, i veneti e i siciliani possono «stare insieme».

È chiaro che tutto questo richiede una netta «discontinuità». Ma «discontinuità» rispetto a che cosa?

Chi scrive ha qualche nostalgia, tipica degli anziani, ma davvero nessun rimpianto. Come i lettori dell'Unità sanno, è da tempo che io denunciavo (sia pure con quella regola imparata nel Pci per cui bisogna sempre considerarsi parte di una responsabilità collettiva e non colpire il partito) tutto il guasto del catastrofico svuotamento della domanda avvenuto in questi anni. Perché di questo si è trattato.

La politica trasformata in un gioco di potere tra piccole oligarchie, i partiti sempre più «personali» ridotti a staff di portaborse o a clienti dell’assessore o del ministro di turno. Non dappertutto, per fortuna, ma la macchia d’olio si estendeva. E aggiungerei una resa impressionante alla realtà virtuale imposta dai «media» fino a consentire che l’agenda del paese sia fissata da un gruppo di conduttori televisivi. Per non parlare dell’accettazione di fatto di quel «pensiero unico» imposto per la verità da anni dal potere economico finanziario. Insomma, la riduzione del cittadino a elettore passivo indottrinato dalla tv, e una democrazia senza memoria che cerca una improbabile identità nella cancellazione della storia precedente.

Perché insisto? Perché qui sta la spiegazione di quel fatto su cui oggi piangono tutte le anime belle, il fatto cioè che i giovani ricorrono a insensate violenze perché non sanno più chi sono e sono stati ridotti a vivere un eterno presente. Ma non è questo l’effetto più profondo del lavoro precario, un lavoro, che di per sé non può poggiare su un passato professionale né, quindi, è in grado di costruire un uomo libero e un futuro? Non è per caso che sentiamo il bisogno di un nuovo umanesimo.

Ho sentito parlare lunedì sera Goffredo Bettini a Roma, in un teatro Argentina entusiasta e gremito. In quel discorso era chiaro che la discontinuità del Partito democratico si definiva in opposizione a questo processo degenerativo. Così come era evidente la straordinaria novità che rappresenta la costruzione di questa forza diversa da ogni altra. Ma qui stanno anche gli interrogativi. Stiamo attenti a non buttare il bambino con l’acqua sporca. Io non ho dubbi che si sta concludendo una intera fase della vicenda politica italiana. E questa non è una piccola cosa.

Non penso affatto che finisca la Repubblica intesa come quella Costituzione repubblicana che è ancora la più avanzata e la più moderna. Ma le forze che l’avevano incarnata, cioè i grandi partiti figli in vario modo della vecchia nomenclatura delle classi, e delle culture, e delle lotte del Novecento queste sì stanno finendo. Allora perchè dico stiamo attenti? Perché la grande scommessa (se guardiamo anche gli interrogativi sul futuro del mondo) è, dopotutto, portare avanti, certo in altre forme, quel vasto moto che dopo l’Unità ha consentito l’ascesa delle classi subalterne e il loro «farsi Stato».

Insomma, non la rivoluzione socialista ma certo una rivoluzione democratica: riforme vere, non chiacchiere da salotto. Allora la sinistra fu protagonista. Noi stiamo forse facendo, rispetto a quel processo storico, un passo indietro? Io non lo credo. Il Partito democratico si chiama così perché è il riconoscimento che la risposta alle nuove sfide e ai nuovi conflitti del mondo richiede schieramenti più larghi e la mobilitazione di forze, ceti, culture che non stanno nei vecchi confini della sinistra storica. Perciò io penso che stiamo scrivendo una pagina nuova ma non una pagina bianca. Il Partito democratico ha forti radici. Ed è in esso che confluisce quel tanto di cultura civica e di etica pubblica che c’è ancora in Italia e che è riemerso ancora una volta il 14 ottobre con quella corsa impressionante ai seggi.

Ma l’interrogativo vero riguarda prima ancora di noi l’Italia. Che paese è l’Italia? Gli uomini come me hanno assistito nell’arco della loro lunga vita alle vicende più contraddittorie. A uno straordinario balzo in avanti dell’organismo produttivo e, insieme, dell’assetto etico-civile (la fondazione di una democrazia repubblicana) che non conosce l’uguale nella storia dell’Europa moderna; ma poi, dopo pochi ani al rischio di un declino che potrebbe spingerci ai margini dei paesi che contano. Io ho visto come è nato il «miracolo». È nato perché una plebe è stato trasformata in un popolo, qualcosa di più di un cittadino-elettore. Perciò un paese ridotto in macerie dalla guerra, disarticolato nei suoi gangli vitali, senza governo perché tutti, dal Re ai ministri ai generali, erano fuggiti e per di più percorso da eserciti stranieri, risorge in poco tempo. Una società contadina in larga maggioranza analfabeta che si trasforma in una delle maggiori potenze industriali, un mondo dominato dalla miseria che diventa uno dei paese più ricchi del mondo. Io ho visto chi lo ha reso possibile. Ma ho visto anche lo sbandamento di questi anni. Non solo il declino economico ma la rimessa in discussione di cose come il rispetto della legge, il patto sociale, le istituzioni assoggettate agli interessi privati, perfino il logoramento del tessuto unitario della nazione.

E’ con questo interrogativo in testa che io guardo al passato, un passato che è carico anche di nostri errori, ma non solo di errori. Largo quindi alle svolte. Un paese invecchiato, seduto, che ha paura del nuovo non può andare avanti così. Perciò una discontinuità è necessario. Ma mi sia consentito di ricordare quel passo di Gramsci il quale dice: "Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in sé stessa anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza. E’ il solito rapporto -dice Gramsci- tra il grande uomo e il cameriere. Fare il deserto per emergere e distinguersi. Mentre una generazione vitale e forte che si propone di lavorare e di affermarsi, tende invece a sopravalutare la generazione precedente perché la propria energia le da la sicurezza che andrà più oltre".
E’ questo l’animo con cui vogliamo costruire il partito democratico. Andare più oltre. Far leva su quello che Vittorio Foa chiama il mondo delle "possibilità", delle rinascite e perfino dei "miracoli". Questo mondo sta nella pancia del paese ma può riemergere solo a certe condizioni. La prima è una nuova classe dirigente che ricostruisca lo Stato e ritessa il filo dell’unità della nazione. La secondo è ritornare a pensare la democrazia come qualcosa che non si esaurisce nei diritti individuali di libertà ma sia anche lo strumento attraverso il quale le masse popolari possono esercitare la propria sovranità. In fondo c’era questo dietro il miracolo di allora: un ethos collettivo, una visione "morale" della cittadinanza. Basta con l’economicismo. Questo torna a essere il problema di oggi.

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