sabato 29 settembre 2007

CON IL POPOLO BIRMANO

Rappresaglia, incidenti, internet bloccato: è caos a Rangoon
Secondo le dichiarazioni di una diplomatica svedese vi sarebbero 35 morti nella sola giornata di venerdì
28 settembre 2007

Precipita la situazione in Birmania. La repressione dello spietato regime militare del Myanmar è feroce. Il numero di vittime accertato, fino a giovedì, è pari a 15, imprecisato quello dei feriti. Tra di loro vi è sicuramente un fotografo giapponese, ucciso a sangue freddo da un militare. Le sconvolgenti immagini della sua morte hanno già fatto il giro del mondo. Il bilancio reale dei morti, però, potrebbe essere purtroppo molto più pesante. Alla fine della giornata di venerdì 28 una diplomatica svedese ha parlato di trentacinque morti. Il conto totale salirebbe dunque ad almeno cinquanta vittime.

La situazione, sul campo, si presenta drammaticamente confusa. I soldati della giunta guidata dal generale Than Shwe proseguono l'occupazione forzata dei luoghi sacri ai monaci buddisti. L’accesso alle aree che circondano alcuni dei luoghi di culto più importanti del Paese è stato interdetto. Tra questi vi sono le pagode Shwedagon e Sule, da dove sono partite nei giorni scorsi le pacifiche manifestazioni di protesta dei monaci.

Stessa situazione a Mandalay, la seconda città del Paese, dove nelle ultime ore si è concentrata la maggior parte delle manifestazioni. Le misure prese dai militari alimentano il timore di una più dura rappresaglia contro i civili. «Abbiamo saputo che le forze di sicurezza hanno posto i monaci sotto controllo - ha dichiarato un diplomatico asiatico sotto anonimato - ora che i monaci sono fuorigioco, i soldati possono adottare misure più dure». Di sicuro vi è che la polizia prosegue con cariche e spari, anche ad altezza uomo. E che gli arresti continuano ad aumentare, al punto che una scuola alla periferia di Rangoon è stata adibita a mega-carcere per i manifestanti.

A rendere più difficile l'elaborazione di un quadro preciso della situazione, vi sono le limitazioni imposte ai giornalisti, in particolare stranieri, da parte della giunta. Il principale collegamento a internet del Paese ha smesso di funzionare. I soldati hanno fatto irruzione presso la sede del principale internet provider del Paese, il Myanmar Info Tech. Tutte le linee telefoniche sono tenute sotto stretto conttollo dal regime.

In questo scenario, diventano sempre più importanti le testimonianze dirette. Ecco una descrizione della situazione che una donna italiana residente a Rangoon ha rilasciato all'Agenzia Italia. «Regna una calma apparente - spiega la signora, che ovviamente ha chiesto di rimanere nell’anonimato - ma in realtà i pestaggi sistematici continuano, e in molte zone della vecchia capitale birmana sono in corso rastrellamenti casa per casa. I soldati irrompono nelle abitazioni private alla ricerca di attivisti o semplici simpatizzanti; se li trovano, li trascinano via immediatamente».

Le vittime totali, denuncia l’italiana, sono molte più delle quindici ufficiali. I civili sono obbligati a firmare dichiarazioni di morte naturale per i congiunti periti sotto le percosse e o causa dei proiettili sparati da soldati e poliziotti. Gli ospedali sono presidiati, e chiunque si presenti per farsi medicare è subito arrestato.
La donna ha inoltre dichiarato che, a quanto pare, risulta essere stata «portata via» dai soldati Aung San Suu Kyi, leader della Lnd, la Lega Nazionale per la Democrazia che costituisce la principale formazione dell'opposizione organizzata. Agli arresti domiciliari dal 2003 nella sua casa alla periferia di Yangon, di Suu Kyi si sono perse le tracce fin dalle prime fasi della repressione. Si ignora dove si trovi attualmente il premio Nobel per la Pace '91.

Tra i pochi organi di informazione attivi, vi è sicuramente Mizzima News, gestito da dissidenti birmani in esilio. Secondo Mizzima sarebbe in corso un regolamento di conti all'interno della giunta, in particolare tra alcuni dei generali dell'esercito. A conferma di ciò, vi sarebbe la notizia, non confermata, dell'arresto del comandante delle forze militari a Yangon (Rangoon), generale Hla Htey Win, dopo che soldati ai suoi ordini si sono rifiutati di sparare sulla folla dei manifestanti. La stessa fonte riferisce tra l'altro che tra le fila dell'esercito cominciano a manifestarsi i primi segnali di rivolta. Si parla di una resa di alcuni soldati che, nei pressi di Mandalay, davanti ai monaci, hanno riposto le armi e si sono inginocchiati.

Un’altra testimonianza di un cooperante italiano, parla di una «Yangon irreale». Nella e-mail che spedisce all’agenzia, l’uomo rivela che «la maggior parte degli uffici e dei negozi della città sono chiusi, che il centro-città è semideserto, e che la situazione di stallo porterà presto ad un collasso». Il cooperante spiega altresì che «i birmani apprezzano enormemente il fatto che finalmente si presti attenzione ai loro problemi e alla loro lotta per la democrazia». E infine lancia un disperato appello: il mondo non lasci solo il Myanmar proprio adesso.

E il mondo come risponde? Manifestazioni e semplici gesti di solidarietà si stanno susseguendo a livello planetario. Ieri, alle 18,30, la pioggia battente non ha fermato la manifestazione tenutasi in Campidoglio a Roma. Il sindaco Walter Veltroni si è rivolto direttamente ai due Paesi asiatici che hanno maggiore influenza sul regime birmano. «Di fronte a quanto sta accadendo – ha detto il primo cittadino - c'è una reazione non adeguata da parte di grandi potenze come Cina e India. Non si è grandi potenze solo per il prodotto interno lordo ma bisogna sapere che ci sono momenti in cui si deve prendere posizione». Veltroni ha avuto poi delle parole di sentita partecipazione quando ha citato il capo dell’opposizione democratica birmana e premio nobel per la pace nel 1991. «In Campidoglio più volte è stato esposto il ritratto di Aung San Suu Kyi, questa meravigliosa donna che ho conosciuto personalmente avendo modo di misurare la sua passione civile. Ho avuto modo di vedere in che condizioni opera. La Birmania è un paese in cui la condizione della donna è inaccettabile».

Piccoli gesti, si diceva. Piccoli, ma grandi per il coinvolgimento che riescono ad innescare. Come la catena di sms e blog che ieri invitava tutti i cittadini del mondo ad indossare un indumento rosso come segno di solidarietà verso i monaci buddisti. Oggi molte persone comuni hanno risposto a questo appello, per fare sentire il popolo birmano meno solo in questa battaglia. Anche personalità politiche italiane hanno seguito l’invito. Enrico Letta si è presentato ad una riunione con i sindacati in camicia rossa, la ministra per le Pari opportunità Barbara Pollastrini con una spilla dello stesso colore a forma di fiore sul rever della giacca. «Quello che sta avvenendo in Birmania – ha detto la ministra diessina - è qualcosa che riguarda ognuno di noi. Mi ha colpito questa forma di lotta non violenta: vedere i monaci marciare insieme agli studenti richiama la politica ad avere uno sguardo sul mondo e i diritti umani».

Intanto la Comunità internazionale si mobilita. L’inviato speciale dell’Onu Ibrahim Gambari è in viaggio da Singapore verso il Myanmar per cercare di mediare una soluzione pacifica che ponga fine alla sanguinosa crisi in atto nel Paese asiatico. Ieri il regime del Myanmar aveva accettato di concedere il visto d'ingresso all'emissario del segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, affermando che sarebbe stato il "benvenuto" a Yangon.

La drammatica situazione in Birmania è stata la centro di un colloquio al palazzo di Vetro tra il ministro degli Esteri Massimo D'Alema e il segretario di Stato americano Condoleezza Rice. Nell'incontro, secondo quanto riferiscono fonti diplomatiche italiane, è stato convenuto che bisogna fare pressione su vari Paesi e sulla giunta militare e c'è stata piena intesa sulla necessità che la comunità internazionale resti focalizzata su questa emergenza. La situazione - è la valutazione comune emersa dal colloquio - è molto grave e giustifica la preoccupazione che viene espressa dalla comunità internazionale.

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